Informazione in tv: l’egemonia è del format, non di Santoro…

23 Set 2011 20:24 - di

Si riaprono le arene televisive, e raggiungono gli spettatori con la stessa scaletta delle risse che hanno preceduto l’estate. Stasera si parla di… “serate eleganti” del premier, crisi, casta. Gli stessi temi dibattuti nella precedente stagione sono ancora in agenda, irrisolti o aggravati, finendo nel calderone di un’attualità aggrovigliata e abbarbicata alla medesima gerarchia di news. Michele Santoro, disarcionato dal pulpito della Rai, parlerà al popolo del web, ma ha comunque molti imitatori, trasversali. Da Gianluigi Paragone con il suo L’ultima parola a Corrado Formigli, che debutta su La7 con Piazzapulita. Il salotto di Giovanni Floris non offre particolari novità (apre Crozza e si mantiene la particolarità del sondaggio commentato in diretta) mentre In onda imbarca Nicola Porro, vicedirettore al Giornale al posto di una già rimpianta Luisella Costamagna, con code polemiche sul maschilismo televisivo e un Luca Telese finlamente libero di gestire il programma da protagonista. Poi ci sono i big che puntano sull’ospite che fa notizia, come Lucia Annunziata (nella prima puntata l’ospite era l’accusatore di Penati, l’imprenditore Piero Di Caterina) e Lilli Gruber (che dopo aver rilanciato Giuliano Amato ha ospitato Gianfranco Fini in una delle prime puntate). Infine ci sono i big che puntano sull’autoreferenzialità, come Giuliano Ferrara, che alla prima apparizione televisiva con il suo Qui Radio Londra ha consigliato al premier di scusarsi con gli italiani. L’inossidabile Bruno Vespa sempre in seconda serata su Raiuno ha scelto per la prima puntata un faccia a faccia Bindi-Lupi (e siamo nel pieno del dejà vu). Uno scenario, come si vede, avaro di sorprese. La formula ormai collaudata non è quella del ragionamento ma quella della contrapposizione, e pazienza se la turnazione degli ospiti è più o meno sempre la stessa. È sempre la stessa perché è funzionale alla formula. È stato Aldo Grasso a notarlo commentando la prima puntata della trasmissione di Formigli: c’erano Roberto Castelli, Matteo Renzi e Maurizio Belpietro. Mancava Di Pietro e poteva sembrare una replica di Annozero. Ma la compagnia di giro con poche variazioni si trasferisce ormai nel corso della settimana da una rete all’altra: stessi temi, dunque, stesse persone e conduttori che, anche quando esordiscono, subiscono i modelli precedenti, anzi il “modello”, quel Santoro per il quale invano la destra ha cercato un “rivale” in grado di eguagliarne l’audience.
Sbaglia infatti chi ritiene che nel talk show politico sia il conduttore a dominare. L’abilità del conduttore ha certo un suo peso ma a dominare è la logica di un format che prevede un fronte pro-Cav e un fronte anti-Cav a meno che la cronaca politica (e ciò avviene raramente) non offra spunti diversi, magari un referendum vinto a dispetto delle previsioni o l’elezione di un sindaco che “spiazza” lo schema bipolare. Chiaramente questo tipo di impostazione non cerca necessariamente la rissa ma crea le condizioni perché la rissa si verifichi e in ogni caso perché ogni concetto venga tagliato con l’accetta della propaganda, da una parte e dall’altra. Gli ospiti vengono scelti se si adattano allo schema, altrimenti lo stesso conduttore non sa bene come gestirli. Fa eccezione, va detto, la trasmissione di Gad Lerner, dove si apprezza lo sforzo di un pluralismo di voci nuove anche se il gran numero di interventi non sempre consente, alla fine del programma, una visione d’insieme coerente. In questo panorama poco incline a rinnovarsi si inserisce da domani anche il ritorno di Agorà, la trasmissione mattutina di Raitre condotta da Andrea Vianello che aggiunge agli ospiti tradizionali (giornalisti e politici) il punto di vista di cittadini comuni attraverso collegamenti via webcam. La fascia oraria è la stessa di Omnibus, lo spazio di La7 dedicato al commento dei giornali (con la sovrapposizione di due linguaggi: quello specialistico degli addetti ai lavori e quello a volte troppo sloganistico dei politici).
Questa l’offerta televisiva a fronte di un’opinione pubblica che ha dimostrato di appassionarsi, e parecchio, all’approfondimento politico. I telespettatori non mancano, dunque, ma non è così sicuro che i programmi riescano a soddisfarne le attese. A questo punto è doveroso domandarsi se il talk show politico è capace o meno di rinnovarsi, se è in grado di uscire dal bipolarismo delle opinioni affastellate in due blocchi: su un gruppo di sedie la maggioranza, sull’altro l’opposizione. Se ciò vuole essere nelle intenzioni un omaggio alla par condicio nei fatti il metodo si rivela causa di affermazioni tautologiche, al punto che varrebbe quasi la pena di avvalersi dell’invenzione di Matt Richardson, l’americano che ha messo a punto un telecomando dove puoi programmare la tua personale Silence List. Se l’ospite non ti garba, e magari non ti garba perché già l’hai visto lunedì, martedì e mercoledì e presumi che anche il giovedì dica le stesse cose, lo condanni a un temporaneo mutismo. Basterebbe, sempre se l’invenzione dovesse affermarsi sul mercato, preimpostare il telecomando in modo da far tacere tutti quelli che ci stanno antipatici, o il cui parere si ritiene superfluo.
Ma non c’è solo il problema degli ospiti fissi. C’è anche quello dei contenuti. Se l’ospite non cambia difficilmente cambiano i contenuti. E se vedere sempre le stesse facce è da un certo punto di vista rassicurante (si raggiunge una sorta di effetto familiarità) ascoltare sempre lo stesso punto di vista risulta alla lunga noioso. E chi l’ha detto, poi, che ripetere sempre i medesimi concetti è garanzia di successo per una trasmissione? Chi guarda e ascolta non ha diritto a una maggiore complessità del gioco dialettico? Si dirà che i tempi televisivi sono contingentati e impongono brevità e semplificazione. Ma si può finalmente dire che la semplificazione del linguaggio televisivo conduce spesso alla banalizzazione e non a una maggiore comprensione? Nei talk show si parla e il linguaggio, come osservava Roger Scruton, comporta dialogo, il dialogo comporta razionalità e pari condizioni da parte degli interlocutori (una delle precondizioni è appunto riconoscere la differenza tra buone e cattive ragioni).
Alcuni personaggi, anch’essi molto in voga, si inseriscono in questo contesto a gamba tesa: anziché dire banalità provocano l’interlocutore o il pubblico, scelgono il profilo dell’aggressività, scatenando fuochi fatui di reciproca indignazione. Si costruiscono insomma una “parte” da recitare per assicurarsi uno spazio di visibilità. Chi guarda ne è perfettamente consapevole così come il conduttore, che del resto ricerca il “colore” per dare la pennellata giusta a una conversazione altrimenti fiacca e dunque lascia fare fino al limite consentito. Tutte cose risapute, si dirà, ma che valeva la pena ricordare per arrivare al nocciolo della questione e cioè che mentre la politica si accapigliava su Santoro e sulla sua permanenza alla Rai si perdeva di vista un obiettivo più concreto, che è quello di “tarare” il talk show a misura di un pubblico adulto, fatto di persone consapevoli e non disposte a essere considerate come gli ultrà di una tifoseria organizzata, appagata da vuote parole d’ordine. Un pubblico che ambirebbe, forse, al necessario equilibrio, in un dibattito politico, tra emozioni e razionalità.
Con una singolare forma di strabismo si continua invece a polemizzare con questo o quel conduttore “fazioso” senza tener presente che il vero problema non è costituito dai minuti concessi per attaccare o replicare ma dalla dittatura di un format che nel tempo si è deteriorato e appare ormai inadatto a “fotografare” la complessità della realtà. Basti in proposito tenere presente che Santoro esordì con Samarcanda nel 1987 e che la parola concessa alle piazze del disagio, per esempio con trasmissioni come Profondo Nord e Milano Italia di Gad Lerner, risale ai primi anni Novanta. È trascorso dunque un decennio sprecato in dibattiti avulsi dalla realtà perché nel frattempo alla piazza televisiva se ne è affiancata un’altra altrettanto potente, quella del web, dove si forma e si determina opinione in modo non meno efficace rispetto alla tv. Una piazza dove è difficile se non impossibile costruire egemonie e predefinire gli spazi a disposizione. Non averlo compreso, o non averlo compreso per tempo, è un altro dei ritardi accumulati dalla politica rispetto alle accelerazioni di una società perennemente in subbuglio.
L’altro grande problema che la mancata evoluzione del talk show politico – ingessato nel format della contrapposizione spacciata per par condicio – pone agli osservatori è quello del linguaggio. Nella società reale i linguaggi si sovrappongono senza seguire una schematicità fissa, laddove un certo tipo di linguaggio televisivo tende a cristallizzare la realtà deformandola secondo il punto di vista di chi parla. A complicare la situazione si inserisce un altro elemento: e cioè il fatto che spesso si usa un certo tipo di linguaggio per sviare l’attenzione, o per minimizzare, o per drammatizzare e tutto questo sempre in omaggio alla “parte” che si è chiamati a recitare nel contesto del salotto televisivo. Così se si vogliono attaccare i privilegi dei parlamentari si utilizzeranno tutti i luoghi comuni del linguaggio anti-casta, senza andare al cuore del problema (la selezione della classe dirigente) mentre dall’altra parte ci si difende osservando che non si tratta di privilegi ma di giuste prebende o addirittura si ricorre alla negazione del problema, come ha fatto Castelli che si è definito «povero nel senso marxiano del termine, nel senso che vivo solo del mio lavoro». Il flusso di parole si organizza dunque in tesi polarizzate: chi ascolta è orientato a schierarsi ancora una volta o da una parte o dall’altra, optando in sostanza per un concetto semplificato laddove la discussione televisiva avrebbe dovuto puntare all’approfondimento o almeno alla chiarezza. Di qui l’impressione, al termine di una trasmissione di questo tipo, di essere rimasti al punto di partenza: si è parlato, si è discusso, si è litigato e poprio in questo risiede, alla fine, il senso ultimo, la formula risolutiva, la “chiave di lettura”. Parlare, discutere, litigare. È l’informazione liquida, e purtroppo sempre uguale a se stessa.

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