In Birmania la giunta torna a sparare

29 Set 2011 19:33 - di

Il “nuovo” governo birmano sorride alla comunità internazionale promettendo aperture e facendo incontrare con gli inviati europei e americani i suoi uomini più presentabili, di solito anziani politici impotenti, dai modi gentili e dalle rassicuranti strette di mano. Intanto, mentre Aung San Suu Kyi per la gioia dei mezzi di comunicazione del regime assiste alle partite di calcio internazionali nello stadio di Rangoon, decine di battaglioni del Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, sferrano una massiccia offensiva contro le minoranze dell’Est del Paese, provocando la fuga di decine di migliaia di civili e la distruzione di interi villaggi. Da cinque giorni le truppe birmane stanno martellando le posizioni del Kachin Independence Army con artiglieria pesante (mortai da 81 e 120mm, cannoni da 105mm) lungo la direttrice del nuovo gasdotto che nelle intenzioni di Cina e Myanmar dovrà portare il gas birmano fino alla provincia dello Yunnan.
Una operazione “per commissione” si potrebbe dire, se non fosse che tra i maggiori beneficiari di questa vera e propria pulizia etnica non ci sono soltanto le compagnie energetiche cinesi ma anche i generali birmani, sempre molto attenti alle sorti del loro portafogli personale. La prossima area di operazioni sarà, invece, molto probabilmente alcuni chilometri più a Nord, a ridosso dei cantieri cinesi della Diga di Myitsone, ciclopica struttura che prevede l’inondazione di una superficie di territorio più ampia di Singapore e la distruzione di decine di villaggi Kachin.
Il gioco delle parti continua, e tra gli attori principali c’è l’Unione europea, che continua a ignorare quello che accade veramente in Birmania. Continua a ignorare che soltanto nell’ultimo mese di guerra sono stati denunciati 37 stupri commessi dai soldati birmani ai danni di donne (e bambine) Karen, Kachin e Shan. E si parla soltanto dei casi documentati e verificati. L’Unione europea, allineata sulla posizione della Germania e della influente organizzazione non governativa “Friedrich Ebert”, una fondazione legata al partito socialdemocratico tedesco e con sorprendenti canali di comunicazione con il regime birmano, continua a ignorare che per le minoranze etniche non è previsto alcun futuro nel disegno dei generali di Rangoon. Quello che interessa veramente, quello che fa gongolare i banchieri è l’ampia garanzia di business assicurata dal governo birmano, che ha intrapreso una decisa manovra di privatizzazioni nazionali e di aperture al mercato internazionale.
Per questo fa sorridere amaramente la posizione “pacifista” della Fondazione Ebert: gli aderenti all’organizzazione sostengono che non si debba dare alcun supporto ai movimenti armati delle minoranze etniche (le quali, per inciso, rappresentano almeno il 40 per cento della popolazione birmana), in quanto questo non farebbe altro che prolungare la guerra. Tra gli obiettivi ufficialmente dichiarati della Fondazione c’è anche quello del perseguimento di una “globalizzazione solidale”, posizione in perfetta sintonia con la filosofia della Chevron e della Total, le multinazionali che da lungo tempo sfruttano le risorse energetiche dei territori Karen e Shan facendo trasferire in “villaggi modello” i civili che si rifiutano di lasciare la loro terra. Un’iniziativa che si traduce in una sorta di deportazione, presentata sotto vesti, appunto, “solidali”.
I Karen stanno respingendo gli attacchi birmani lungo un’altra importante “linea commerciale”, quella della grande strada in costruzione tra la città thailandese di Kanchanaburi e il porto birmano di Tavoy. L’Unione Nazionale Karen, per bocca del suo segretario nazionale, la signora Zipphora Sein, aveva annunciato qualche giorno fa che la guerriglia avrebbe impedito il proseguimento dei lavori a meno che non fossero state rispettate alcune condizioni fondamentali per la tutela del territorio e per il rispetto dei diritti degli abitanti del distretto attraversato dai cantieri. I camion delle compagnie coinvolte nella costruzione erano stati bloccati dai guerriglieri Karen. Tra questi, diversi automezzi carichi di materiale cinese destinato alle grandi opere nell’area portuale birmana. Un’area in cui si sentirà ben presto parlare anche il tedesco: nel giugno di quest’anno, infatti, il direttore della fabbrica di armi e munizioni “Fritz Werner”, Joerg Gabelmann, ha incontrato alti ufficiali della giunta birmana per stringere un «accordo di reciproca collaborazione su porti e aeroporti».
Si tratta di una situazione da cui emergono almeno due dati o, meglio, due conferme. La prima è che le elezioni celebrate in Birmania quasi un anno fa non hanno cambiato né metodi, né intenzioni, né fisionomia del governo. Benché il mondo occidentale le abbia salutate come un passo positivo verso la democrazia, il Paese è ancora solidamente nelle mani di una giunta militare ben lontana da quell’aura di accettabilità che in molti, ora, vorrebbero conferirle. Il secondo dato è che la guerra che questa giunta porta contro le minoranze etniche – e che miete vittime tra contadini, allevatori, monaci, donne e bambini che chiedono solo di restare a vivere sulla terra che abitano da sempre – è molto meno lontana di quanto appaia, è tutt’altro che una questione interna. Si consuma lungo le vie dei grandi affari internazionali che passano, sì, per la giungla, i villaggi e le province del Myanmar, ma che puntano direttamente a Pechino, Shangai, Bangkok, Tokio, Parigi, Berlino, Mosca, Londra, Tel Aviv, alla California, a Singapore e a tutti i luoghi in cui quegli affari vengono concepiti in collaborazione con la giunta militare e con la distrazione delle democrazie occidentali.
* Comunità solidarista Popoli Onlus

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