Cosa ci aspetta dopo la fine del “secolo americano”

10 Set 2011 20:43 - di

Il Ground Zero di Manhattan è ancora un vuoto, nonostante che siano dozzine ormai i progetti per costruirci un monumento aere perennius, più perenne del bronzo nella lingua di Orazio. L’ultimo vorrebbe avere la perennità del sogno e del simbolo: l’architetto ha immaginato un enorme trapezio sospeso nell’aria all’altezza in cui c’erano le cuspidi delle Torri Gemelle. Rimarrà un sogno, si costruirà prima o poi un memorial in qualche modo appoggiato alla terra. Perché sulla terra le cose cambiano, a volte lentamente, a volte per il fragore di un solo evento. In questo caso di due: uno “piccolo” e personale, l’altro di dimensioni planetarie. Hanno ammazzato Bin Laden. Il verbo è brutale ma descrive la realtà meglio del ricorso a frasi sonore che coinvolgano il “fare giustizia”, umana o divina. Si è compiuto l’impegno terra terra e sangue caldo preso da George W. Bush: “Vivo o morto”. Morto. Abbattuto. La vendetta è compiuta, per quel che vale quando il conto è di uno a tremila, senza contare le molte altre decine di migliaia che un po’ in tutto il mondo sono state vittima della “coda” avvelenata del Terrore e delle campagne, qualche volta indiscriminate, per sradicarlo. Nessuna storia finisce mai nella Storia, ma dal giorno di cui si disse che aveva “cambiato il mondo”, il mondo è cambiato davvero. Un diverso terrore corre oggi nei canyons di Manhattan: quello di un bis ancora più distruttivo e pericoloso del crollo finanziario del 2008 e  delle sue conseguenze devastanti sull’economia del mondo intero e, in America, non soltanto dell’economia.
Il decennio che si è aperto con la strage terroristica corrisponde, con pochi mesi di scarto, con il decennio tout court, quello che ha inaugurato il nuovo millennio e segnato forse la fine del “secolo americano”. Sul frontone del palazzo che ospita l’Archivio di Stato a Washington è inciso un motto orgoglioso e molto americano: “Il Passato è Prologo”. La prima decade del nuovo secolo è stata ricca di eventi, calamità e sorprese, dunque di smentite a molti e a molte scuole di pensiero.
Tra gli economisti più famosi e pensosi quasi nessuno aveva scritto sulla lavagna del futuro, la notte di Capodanno del Duemila, l’ipotesi che dalla globalizzazione scaturisse una recessione planetaria tale da resuscitare i ricordi della depressione degli anni Trenta. Ben pochi fra gli strateghi planetari erano stati colti dalla premonizione che il più grave ostacolo al consolidamento della egemonia unipolare degli Stati Uniti sarebbe sorto non dagli ex rivali né dalla furia – comunque perdente – del terrorismo ma da un infarto della superpotenza, della sua macchina produttiva e finanziaria, della sua “ideologia” sfuggita a ogni regola e contrappeso. Nel 2001, prima della strage di Manhattan e ancora di più dopo, gli americani erano convinti di essere il centro del mondo e gli altri condividevano tale convinzione forse ancora più fermamente. La decade di cui si parla oggi non ha segnato solo un inizio: era anche il compimento di un altro decennio, quello inaugurato dalla fine della Guerra Fredda. Dieci anni e un mese prima dell’11 settembre 2001 era scomparsa l’Unione Sovietica. L’evento centrale che si è ricordato e celebrato a Mosca e nei Paesi ex satelliti è stato il golpe effimero dell’ultima ora con cui i fedelissimi del regime crollante avevano tentato di fermare la storia arrestando Mikhail Gorbaciov. L’euforia dell’Occidente era fin troppo comprensibile e aiuta a spiegare anche l’ascesa in America di una “filosofia” di una Nuova Era basata sull’inarrivabile potenza degli Stati Uniti e sull’ideale dell’inarrestabile estensione della libertà a tutto il pianeta. Era la filosofia della fine della storia.
Dieci anni dopo la visione del mondo è cambiata radicalmente. Non lo dice soltanto l’entità dei disastri finanziari e di una crisi economica di fondo, forse di sistema (che è soprattutto conseguenza della globalizzazione e della contemporanea “esplosione” di un progresso tecnologico senza freni né controlli politici). Lo conferma lo spostamento degli stessi epicentri delle crisi e dei pericoli. Sono scomparse, vent’anni dopo, le ultime scorie della Guerra Fredda, si ridimensiona, dieci anni dopo, anche la portata della nuova minaccia, il radicalismo islamico di massa. Scottano ancora le ceneri dell’Iraq e dell’Afghanistan, ma il Medio Oriente di cui si parla sembra consistere soprattutto di sommosse, sogni, velleità in qualche modo ispirate da ideali confusamente “democratici”. Oggi è possibile quel che ieri era impensabile: che si tengano “vertici” in Asia e in Europa in cui si parla poco dell’America. A Pechino, a Nuova Delhi, a Brasilia, ad Ankara si concludono affari, accordi, alleanze indipendenti dalle preferenze e dalle indicazioni degli Usa. Perfino nelle piazze arabe e mediorientali l’America non è più il bersaglio centrale e unificatore degli odii, che si dirigono invece sempre di più verso i governi di quei Paesi. E dove l’America è presente non sempre è in cattedra. Il governo cinese si sente ora di criticare quello di Washington per come affronta i problemi interni dell’economia americana e di stigmatizzare perfino la “paralisi” del sistema politico Usa. Durante l’ultima campagna elettorale per la Casa Bianca (anzi la penultima, quella che nel 2008 portò al potere Obama, visto che quella nuova per il 2012 è già in corso) un commentatore televisivo giunse a sintetizzare l’ “era Bush” in un distico che in inglese contiene la rima: “From 9/11 to Chapter 11” e che si potrebbe tradurre “Dalla strage alla bancarotta”. Ma è una perfidia da tempo ingiallita. Anche i più acerbi critici di Bush si sono convinti che non si può continuare a dargli la colpa anche di quello che non ha funzionato negli ormai quasi tre anni dopo la fine del suo mandato. Adesso altri lo fanno, è vero, dando tutte le colpe a Obama incluse le macerie economico-finanziarie che egli ha ereditato. Ma queste sono polemiche da urne. Gli storici sono più prudenti e perfino gli economisti danno prova di una “modestia” nuova per loro. Le commemorazioni di stragi e catastrofi inducono sempre a toni più sommessi. Questo è particolarmente vero nel decennale di quella strage che avrebbe dovuto “cambiare il mondo”.

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