A Napoli la sinistra  ha ucciso il “sogno”

23 Set 2011 20:20 - di

L’assetto urbanistico di Napoli si è andato conformando nei secoli, espandendo a macchia d’olio il primo insediamento abitativo greco-romano. Il prodotto di questo lungo moto ondoso concentrico è sotto gli occhi di tutti: dalla collina di San Laise agli orti di Ponticelli lo sguardo si perde nel susseguirsi ininterrotto di fabbricati ove gli stili architettonici, le diverse maglie urbanistiche, s’intrecciano sino a dar luogo a un unicum indivisibile entro cui funzioni urbane e qualità della vita non sempre rispondono ai canoni della modernità.
La storia del Piano regolatore per Napoli è troppo nota per essere ricordata, così come altrettanto noto è l’abuso che si è fatto delle Varianti. Eccesso che, di fatto, ha impedito di pianificare secondo una visione organica e d’insieme della città, di adottare soluzione calibrate alle esigenze produttive economiche e sociali, di riscriverne l’identità e il ruolo globale quale sintesi delle sue parti. Varianti adottate quasi sempre sulla spinta emozionale determinata da fatti straordinari o da grandi eventi internazionali. Ininfluenti – se non peggiorative – ai fini della riqualificazione funzionale e urbanistica della città.
Le ultime, in ordine di tempo, hanno riguardato il risanamento e il riassetto urbanistico delle aree industriali dismesse a occidente e a oriente di Napoli. Quest’ultima, la più imponente – anche se la prima ha conquistato un maggior grado di notorietà per i ritardi, i limiti e le polemiche – interessa 266 ettari, distribuiti su quattro quartieri periferici: Barra, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio e Poggioreale. Uno spazio enorme pari quasi a un terzo della città. È un’impresa che per dimensioni supera l’Expo di Milano. A realizzarla un gruppo d’imprenditori napoletani sotto la griffe “Naplest viva, Napoli vive”. A presiedere il comitato organizzatore Marilù Faraone Mennella D’Amato.

I quindici progetti
La riqualificazione dell’ex comprensorio industriale si articola in ben quindici progetti che assorbiranno finanziamenti pari a 2,3 miliardi di euro provenienti da investimenti privati. Una delle opere è già stata ultimata: il centro commerciale Auchan, 38mila metri quadri di superficie totale con ipermercato e galleria commerciale. Altre sono in corso di realizzazione: il gruppo Decathlon realizzerà il più grande negozio d’Italia (circa 7.000 mq), il gruppo Accor costruirà un hotel del marchio All seasons di 150 camere, i cinesi della Cosco il terminal container di Vigliena, la Società di progetto Porto Fiorito Spa la realizzazione di un porto turistico sul litorale di San Giovanni, a levante del porto di Napoli, dalla capacità di circa mille posti barca. Un intervento di recupero faraonico che fa riflettere sulle reali finalità del progetto. Gli ingredienti sono quelli classici: superfici da recuperare a una funzione, imprenditori privati, politici, interpretazioni del Piano regolatore.

Quei correttivi inutili
Il caso del Palaeventi è significativo. Il 23 aprile 2009 la commissione edilizia del comune di Napoli chiamata a esprimersi in merito al progetto dà parere «contrario in quanto la struttura commerciale prevista non ha il requisito della sussidiarietà rispetto alla struttura pubblica, in relazione alla quale si pone in autonomia funzionale e priva di qualsiasi requisito prestazionale con riferimento alla prevista funzione pubblica dell’area in questione, con evidente sottrazione di spazi e volumi alle finalità pubbliche previste dall’articolo 50 della Variante al Prg». Da quella data è cominciata una teoria ininterrotta di aggiustamenti progettuali, di pressioni più o meno velate al fine di ottenere il parere favorevole della commissione comunale. Parere che sino a oggi è rimasto immutato. A tutto ciò concorre anche l’ostinata opposizione del sindaco Luigi De Magistris alla costruzione del termovalorizzatore in quest’area perché inevitabilmente diminuirebbe il valore dei suoli e degli investimenti di Naplest. Ritenute legittima la mission degli imprenditori e di competenza della magistratura le eventuali derive illegali nell’intervento della Naplest, non si può tuttavia sorvolare sulla scarsa rilevanza strategica del progetto. «Si è scelta Napoli Est per la libertà di comprare i suoli», ha dichiarato la Faraone Mennella. Acquisto finalizzato all’ovvia realizzazione di profitti e non certo alla definizione di un modello di sviluppo per Napoli. Compito questo che doveva essere svolto dal governo urbano.

Abbiamo perso il treno
Quale occasione migliore per l’amministrazione comunale, avendo a disposizione le vaste aree dismesse dall’industria, per poter stabilire, in una visione complessiva della città, funzioni e relazioni tra le diverse aree urbane da collocare in una prospettiva globale di ruolo da sviluppare e sostenere con scelte da programmare in collegamento reale, concreto e costante con i comuni dell’area metropolitana, con tutta la Regione, il Mezzogiorno e il Mediterraneo. Le proposte del Comune, senza alcuna strategia di fondo, si sono limitate all’ovvio di condizioni minime di riassetto che avrebbero dovuto invece essere subordinate ai grandi criteri strategici. Quelli cioè che garantiscono sviluppo economico e grandi effetti positivi sull’occupazione. Era sufficiente considerare la diffusa articolazione intermodale di trasporto e la storia dell’ex zona industriale di Napoli. L’area doveva conservare le sue caratteristiche con insediamenti produttivi selezionati tipologicamente e orientati a soddisfare le esigenze dei mercati emergenti.
Osservando la trasformazione della destinazione d’uso del territorio, riecheggia l’idea di Antonio Parlato (responsabile nazionale del dipartimento economico di Alleanza nazionale): 1500 tra piccolissime, piccole e medie aziende prevalentemente industriali, scientifiche, tecnologiche, del terziario e dei servizi in grado di “colloquiare” con il sistema produttivo meridionale e orientato all’esportazione nel Mediterraneo e nel vicino Oriente: Partenosud. L’idea dell’autorevole meridionalista era quella di realizzare un parco tecnologico al servizio dei mercati dell’Africa settentrionale in tumultuosa crescita, inserito in un’area franca o del porto franco. In tal modo, Napoli, con la sua portualità, sarebbe divenuta un punto di snodo dei traffici mercantili tra l’Europa ed il Mediterraneo e viceversa. Ancora una volta però, l’amministrazione comunale ha optato per soluzioni di basso profilo.

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