Quando in edicola chiedevamo “Il balilla”

24 Giu 2011 20:21 - di

È passato ormai quasi mezzo secolo dalla scomparsa di Antonio Rubino: da quel primo luglio del 1964 in cui venne ritrovato senza vita sotto un castagno, nei suoi amati boschi di Bajardo, paesino della provincia di Imperia. Tra le mani un foglietto su cui aveva annotato un’ultima poesia, dedicata alle nuvole. Giammai alle nuvolette. Non s’era lasciato conquistare dai balloons dei comics d’importazione americana e, per le sue storie a vignette, li aveva sostituiti con filastrocche a mo’ di didascalie. Un mix di invenzioni visive e giochi linguistici che oggi definiremmo produzioni multimediali. Rivolte ai suoi lettori prediletti, da sempre: i bambini. Nato a Sanremo nel 1880, una laurea in giurisprudenza nel cassetto, è stato pittore autodidatta e raffinato al tempo stesso, a suo agio con l’estetica liberty come nella dinamica vivacità del Futurismo, grafico geniale e poeta di talento, ma soprattutto esploratore attento del mondo infantile, precursore di più generazioni di disegnatori che nei decenni successivi si sono misurate con l’originale via italiana alle “strisce” tracciata da Rubino in punta di matita e rima baciata.
Dopo una lunga “gavetta” da illustratore, nel 1907 diventa autore di punta del fiorentino Giornalino della domenica di Vamba – alias Luigi Bertelli, papà di Gian Burrasca – e l’anno successivo è lui a ideare e realizzare la testata del Corriere dei Piccoli, il popolarissimo settimanale di cui sarà artista simbolo e autore di personaggi bizzarri quanto indimenticabili, assenti da decenni nelle librerie e da poco riproposti in una ricca raccolta curata da Matteo Stefanelli e Fabio Gadducci: Antonio Rubino. Gli anni del «Corriere dei piccoli» (Black Velvet, pp. 128, € 24,00). Dentro c’è gran parte del mondo di Rubino: dalle “disavventure geometriche” di Quadratino, monello con la testa quadrata, all’anarchia antiscolastica di Caro e Cora, dalle invenzioni futuriste di Abetino ai piccoli protagonisti fascisti che ne hanno caratterizzato ampia parte della produzione.
L’avvento della prima guerra mondiale lo aveva visto impegnato con La Tradotta, settimanale della Terza Armata, a sostenere con il suo umorismo visionario il morale delle nostre truppe durante gli ultimi mesi del conflitto. Per loro inventa il caporale C. Piglio, dispensatore di consigli non richiesti, e il fante Muscolo Mattia ma soprattutto rappresenta la vita di trincea in disegni da cui ogni cupezza è bandita e la realtà bellica è sfumata in un clima spensierato, idilliaco e a tratti goliardico. Da Il fante si arrangia a L’ardito si diverte per arrivare alla Russia bolscevica vista a volo d’uccello, si tratta di tavole spesso a doppia pagina, talmente affollate di personaggi da anticipare di molti anni le caotiche composizioni jacovittiane. Niente a che vedere con la retorica guerresca con cui l’Italia liberale formava fanciulli col moschetto. Il mondo del fumetto non era sfuggito alla mobilitazione e i messaggi politici più o meno espliciti avevano iniziato a fare capolino nelle storie di evasione, ovviamente mirati a esaltare le glorie italiane in vista di quelle, auspicate, del futuro. Gli intenti pedagogici e gli ingredienti della propaganda, tuttavia, andavano dosati accuratamente per non comprometterne la creatività e soprattutto l’appeal rispetto agli accattivanti competitors d’oltreoceano.
Una miscela di cui Antonio Rubino si dimostrerà un maestro sulle pagine de Il balilla, organo per la gioventù realizzato dal partito fascista – «cui l’autore guarda con fiducia», scrivono Gadducci e Stefanelli. La nota di presentazione della pubblicazione, firmata da Dino Grandi e Francesco Meriano, non lasciava spazio a dubbi circa la “politica editoriale”: «Non si conquista per sempre l’anima della Nazione se non si cura l’educazione intellettuale e morale dei fanciulli e dei giovinetti». Per gli eroi d’inchiostro, fez e camicia nera diventano d’ordinanza ed ecco, tra i tanti “arruolati”, Fasciolino di Muggiani, Peperino di De Seta, Bobo, Saetta, Sì e Se, fascisti dal volto umano, e non ultimi, i personaggi di Rubino: il balilla Dado e la sorella Stellina, ai quali verrà affidata l’esaltazione delle realizzazioni mussoliniane – dalla bonifica alla battaglia del grano, dalle colonie marine ai campeggi montani fino alla commemorazione della marcia su Roma – e a cui si aggiungerà Lio, balilla modello, creato dall’autore per Il Balilla. Negli anni Trenta, Rubino assume la direzione di Topolino, uno dei fumetti più amati dalla famiglia Mussolini. Se Romano era abbonato e Vittorio meditava di pubblicarvi la riduzione a fumetti di Luciano Serra pilota, il film di Goffredo Alessandrini, il duce stesso ebbe a spendersi in difesa dell’illustre topo, tra i pochi eroi statunitensi a non essere rispediti al mittente.
La leggenda vuole che quando Ezio Maria Gray, funzionario del ministero della Cultura popolare, gli sottopose l’elenco dei personaggi da “epurare”, Mussolini si limitò ad annotare: «Eccetto Topolino». Non si trattava di un atto di cortesia nei confronti di Walt Disney – anticomunista viscerale, al punto da essere definito «principe nero di Hollywood» dal biografo Marc Eliot – che pure incontrò in un paio di occasioni. Lo fece, peraltro, malgrado la campagna per l’italianizzazione della produzione fumettistica che seguì al Congresso Nazionale per la letteratura infantile e giovanile, presieduto da Filippo Tommaso Marinetti e culminato con la redazione del Manifesto della letteratura giovanile, il cui obiettivo dichiarato era quello di far sì che «in tutte le narrazioni i nostri infortuni fossero trattati con laconismo e le nostre numerose vittorie con lirismo». Alla chiamata in armi della patria arrivano in edicola eroi adeguatamente fascistizzati: Lucio l’avanguardista, Romano il legionario e soprattutto Dick Fulmine, gemello d’inchiostro del pugile Primo Carnera, poliziotto italoamericano la cui immagine fu abilmente sfruttata anche durante la guerra, quando a Fulmine venne cucita addosso la divisa da soldato.
Rubino, invece, era e rimase fino alla fine al “servizio” del «demonio dello stile», armato solo di fantasia, ironia e volontà di sperimentare nuove forme espressive, talmente “avanti” da essere inattuale. Tra tutti i suoi “figlioli” di carta, in fondo, il più autentico dei personaggi è Rubino stesso: «composto e misurato signore – lo descrivono Gadducci e Stefanelli – e in realtà vitale oppositore d’ogni passatismo, metodico nella vita e all’inverso acceso di una fantasiosa lunarità, all’apparenza distaccato dalle cose terrene e invece pronto a battersi per una propria idea di bellezza».
Apprezzato da Italo Calvino e Federico Fellini, ormai sessantenne, è tra i primissimi a tentare la strada dell’animazione. Senza alcuna esperienza nel campo e con i pionieristici mezzi dell’epoca, realizza i primi cortometraggi a colori: Nel paese dei ranocchi viene premiato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1942, l’unica copia di Crescendo Rossiniano finisce sotto ai bombardamenti di Berlino e il terzo cartone animato, L’arco dei Sette Colori, girato nel 1953 con macchina sinalloscopica, sistema di riprese  da lui stesso brevettato, viene anch’esso applaudito  a Venezia. Nulla, tuttavia, che potesse renderlo ricco. Morì povero, prima che la critica potesse riconoscerne l’importanza: per aver contributo alla maturazione artistica di un’arte popolare, il fumetto, reinventandola con libertà di idee e stile tutto italiano. Una celebrazione postuma arrivò nell’aprile 1965 con il primo numero di Linus, ma la coperta rimane corta e un pizzico avara. «Non ho fatto altro che seguire la mia sorte – diceva di sé – e il mio motto è sempre stato questo: sequor naturam meam».

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