«Cari “amici del dragone": la primavera cinese ci sarà»

23 Giu 2011 20:57 - di

Avviso agli amici del “dragone”: verrà (anche) la “primavera cinese”. «Ed è per questo che l’Occidente deve essere pronto a capire i segnali che iniziano a provenire da quel Paese». Per Matteo Mecacci – esponente radicale eletto nel Pd e relatore Osce su democrazia e diritti umani – proprio ciò che sta avvenendo nell’Africa mediterranea può e deve essere strumento per comprendere i movimenti, le tensioni e le sorprese che si manifestano in Estremo Oriente. Concetto non molto dissimile da ciò che Ernesto Galli della Loggia ha notato qualche giorno fa sul Corriere a proposito di repressione in Cina e di silenzio dell’Occidente: concetti sui quali misurare omertà e complicità.

Con chi ce l’avevate voi e Galli della Loggia?

Con tutti coloro che hanno interessi in Cina, che in Italia non sono pochi come del resto in Europa. È un discorso rivolto a un certo establishment italiano che abbiamo visto all’opera recentemente anche con la Libia e con l’Egitto: paesi con i quali i grandi partiti così come i grandi gruppi industriali hanno pensato di fare investimenti che al momento possono sembrare convenienti ma che in prospettiva sono più che rischiosi.

Perché?

Dove non c’è stato di diritto, non c’è magistratura indipendente e stampa libera che controlla il tasso di corruzione nella gestione della cosa pubblica, non ci può essere sicurezza: è sicuramente tutto questo anche dal punto di vista economico non paga. Le scelte di realpolitik non sempre sono sagge. Anche perché la crescita economica del nostro paese si è consolidata grazie ai mercati dei paesi democratici: Usa ed Europa su tutti.

Eppure ospite, in veste di professore e di premier, a diversi vertici in Cina è stato uno che di nome fa Romano Prodi.

Vero. Basti pensare che anche uno come Romiti fa parte degli amici della Cina. Detto ciò non credo che sia un discorso di persone. Io contesto il ragionamento di chi pensa che basti l’adesione al mercato per legittimare in qualche modo un paese. Questo è un problema che riguarda tutti. Attenzione però, i rapporti con la Cina sono una questione importante: il discorso è come si tengono. Se si vogliono avere rapporti veri occorre una richiesta di confronto sullo stato di diritto e sul rispetto delle minoranze nazionali.

Come bisogna interpretare la liberazione “condizionata”  di Ai Weiwei?

Il governo cinese negli ultimi venti anni ha avuto un’innegabile evoluzione. Non ha bisogno dei carri armati di Tienanmen ma ha una serie di mezzi e di strumenti di controllo e di intimidazione che sono meno cruenti. Questo è un dato positivo, e penso che anche la sollevazione internazionale per Ai Weiwei sia stata un elemento importante. Questo dovrebbe far riflettere: perché la cosa che manca di più, e che di più vuole la Cina, è l’accettazione internazionale come un partener importate. Ma questo deve passare da un percorso democratico. E in un “negoziato” non possiamo mostrarci morbidi in questo passaggio dove possiamo influenzare i cinesi.

In effetti forse in Cina qualcosa sta cambiando: adesso si sciopera contro il regime. Arriverà mai la “primavera cinese”?

Io sono convinto che il futuro della Cina sarà un cambio di regime, dell’arrivo di un sistema più democratico. Certo, occorre capire come si ci si arriva e quando. Ma sono convinto che anche questi scioperi che continuano ad aumentare sono un segnale. Se dovesse arrivare anche in Cina la crisi penso che un movimento di sollevazione popolare che chiede maggiore libertà verrà anche dal popolo cinese.

Dobbiamo augurarci la crisi in Cina allora…

Non dico questo. Ma sono convinto che un sistema autoritario non è in grado di gestire crisi sociale con gli strumenti di una democrazia.

Ricorre un anniversario: sessant’anni di “liberazione pacifica” del Tibet. Che ne pensa?

Che tutto questo rientra nel strategia della propaganda cinese. Da questo punto di vista però c’è un segnale che viene poco valutato dall’Occidente: la recente scelta che ha fatto il Dalai Lama di abbandonare formalmente il potere politico, in nome di una separazione tra autorità religiosa e politica che risponde a quello che i cinesi con la “liberazione” del Tibet intendevano fare: smantellare un paese con un sistema feudale.

Ci sta dicendo che è stato un assist alla Cina?

Tutto il contrario. L’esempio, la lezione, che ha dato il Dalai Lama con la piena democratizzazione della diaspora tibetana, rappresenta un monito dato al regime cinese per la gestione della minoranze nazionali oppresse come lo sono i tibetani, ma anche i mongoli. Questo dovrebbe essere di fondamentale importanza per l’Occidente che non deve compiere l’errore di credere che questo quadro in Oriente sia immutabile.

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