La Palestina, Hamas e i patti con al-Fatah

29 Apr 2011 20:10 - di

«È una strada nuova, non guardiamola ponendoci il problema di dove arriverà, ora l’importante è che si apra». Il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, invita a non avere posizioni preconcette rispetto a una delle novità che stanno interessando l’area palestinese e quindi lo scacchiere mediorientale: la firma di un accordo di riconciliazione tra Hamas e al-Fatah, che avverrà mercoledì al Cairo. Il documento sarà alla base della prossima formazione di un governo transitorio di “coalizione”, che avrà tra l’altro il compito di preparare le elezioni presidenziali e politiche entro 12 mesi, di operare per rimuovere il blocco israeliano a Gaza e per ricostruire la Striscia. L’altra novità è l’annuncio, da parte dell’Egitto, della riapertura in modo permanente del valico di Rafah, che fu chiuso nel 2007 quando Hamas prese il controllo della zona e che è l’unico punto d’accesso alla Striscia di Gaza a non essere sotto il controllo di Israele. Le due questioni sono strettamente connesse dal punto di vista diplomatico, perché diversi osservatori leggono la riapertura del valico come una concessione ad Hamas in cambio della sua disponibilità all’accordo, nell’ambito del quale il leader dell’Anp Abu Mazen viene confermato alla guida delle trattative con Israele. È stato lo stesso presidente palestinese a riferire che sarà lui a condurre il negoziato politico, nel tentativo di mandare un messaggio rassicurante a Tel Aviv. Hamas, per Israele, è una formazione terroristica e Shimon Peres ha bollato come «un errore fatale» l’accordo interno palestinese: «Allontanerà la prospettiva della costituzione di uno Stato palestinese indipendente», ha avvertito il presidente israeliano. Si tratta della stessa lettura che ieri dava il quotidiano Makor Rishon, per il quale la conseguenza del patto del Cairo è che «l’autorità palestinese si trasforma in uno stato di Hamas. Quell’accordo – si leggeva – è foriero di una nuova guerra».
Eppure anche in Israele, anche di fronte a un’alleanza che per molti è indigeribile, qualcosa si muove e una parte del dibattito si orienta nella direzione dei “due popoli, due Stati”, per citare un vecchio, mai tramontato, slogan degli ambienti della destra movimentista italiana. Il quotidiano liberal Haaretz pubblicava ieri in prima pagina un editoriale che era una sorta di appello. «Sarebbe meglio – diceva – che Israele compisse un gesto coraggioso e generoso e si schierasse in maniera amichevole accanto alla culla dello Stato nascente, anche in qualità di uno dei “padrini”». La richiesta non sembra tanto lontana dal sentimento popolare, visto che il giornale Yediot Ahronot ieri pubblicava un sondaggio secondo cui il 48 per cento degli israeliani è a favore del riconoscimento del futuro Stato di Palestina da parte di Israele. C’è, però, un «ma»: a condizione che le aree ebraiche di popolamento in Cisgiordania restino sotto il controllo israeliano. Il nodo del conflitto, anche nelle coscienze degli israeliani, dunque, resta irrisolto. «Quando si parla di “due popoli, due Stati” – ricorda Mantica – in linea di massima si parla dei confini del ’67, questo almeno come gergo comune e diplomatico. Parlare di “due popoli, due Stati” ponendo condizioni sugli insediamenti israeliani avvenuti in aree palestinesi al di là dei confini del ’67 significa porre una condizione molto pesante, come dire che si ha diritto a vivere in un appartamento ma nella sola area della cucina». Il sottosegretario aggiunge poi che «l’altra questione che non viene ancora accettata è lo status di Gerusalemme, perché quando se ne parla si intende che una parte di Gerusalemme dovrebbe rimanere come capitale dello Stato palestinese, ma Gerusalemme, e soprattutto Gerusalemme Est, è stata ormai inglobata nella città israeliana». Dunque, non vi è nulla di significativo nel dibattito sui quotidiani e nel sondaggio? Non è esattamente così, perché «fatte queste due premesse e posto che andrebbero capite nel dettaglio le domande della rilevazione, va comunque registrato che metà della popolazione israeliana accetta di discutere l’esistenza di uno Stato palestinese nei confini della “Grande Israele”».
È però evidente che se quasi la metà dice sì, l’altra metà dice no. È quella parte di opinione pubblica che si riflette nelle preoccupazioni o nei veri e propri allarmi per l’accordo del Cairo. Preoccupazioni e allarmi che non si giustificano solo con l’estremismo di Hamas. «Una delle teorie esistenti – spiega ancora Mantica – è che Tel Aviv non abbia mai voluto lo Stato palestinese unitario e che abbia sempre giocato su Hamasland e Fatahland, cioè per usare un linguaggio italiano su una regione di sinistra e una di centrodestra, nella convinzione che le due avrebbero avuto uno sviluppo autonomo e quindi Israele sarebbe stata più facilitata a giocare con due istituzioni. Certamente – prosegue il sottosegretario – tutti coloro che operano e pensano in contrarietà allo Stato palestinese e tutti coloro che pensano che Hamas e al-Fatah debbano restare separati, chiaramente non vedono di buon occhio la ripresa del dialogo fra i due e l’accordo per un governo unico». Dunque, alle chiusure nei confronti dell’unità palestinese concorrerebbe anche uno dei più consueti strumenti di qualsivoglia logica egemonica: il divide et impera. Ma per Mantica sulla fortissima diffidenza israeliana pesano anche dati oggettivi: «Israele – sottolinea – è bloccata su una chiusura legata alla sua sicurezza, che è esemplificata nella costruzione del muro. Va detto anche, e doverosamente, però, che chi credeva nei due Stati o nel processo di statualizzazione palestinese aveva sperato che l’uscita da Gaza dei coloni, ai tempi di Sharon, potesse fare dell’area un nocciolo originario dello Stato palestinese, non certo una centrale missilistica contro Israele. Ogni volta che è stata scelta la strada delle concessioni ai palestinesi sono avvenuti fatti negativi e aggiungo anche che quando gli israeliani hanno lasciato il Nord di Israele, o se vogliamo il Sud del Libano, si sono ritrovati sotto i missili di Hezbollah». «Gli estremisti da tutte e due le parti rendono difficile il dialogo», aggiunge il sottosegretario, che però ribadisce l’invito a guardare con attenzione e senza preclusioni alle novità. «Quello che avviene in Medio Oriente – spiega – porta anche formazioni estremiste, che però hanno una forte componente politica, come Hamas a capire che la strada è quella del rinnovamento delle istituzioni, dei rapporti sociali e politici nell’area e che loro non possono stare fuori. Se vogliono avere un ruolo da protagonisti devono entrarci e il paragone è quello con i Fratelli musulmani in Egitto, che si stanno frantumando in molti gruppi, ma tutti si misurano sui rapporti con la democrazia e su una strada che non prevede a priori l’uso delle armi».

Commenti